Archivio della categoria: Notizie e attività

DECENNALE ANIPI REGIONE VENETO

28/10/2012

E’ con vero piacere che vi comunichiamo che la nostra Associazione festeggia quest’anno il suo primo decennale.

E’ una buona occasione per far festa tutti assieme: soci, famigliari, amici e simpatizzanti, con un pranzo sociale e… qualche sorpresa!

Saranno presenti anche i medici che ci hanno “aiutato” in questi anni e i rappresentanti delle altre Anipi Regionali.

Il pranzo si svolgerà domenica 28 ottobre alle ore 12.30 presso il Patronato Parrocchiale “San Giuseppe”  di Arzergrande (Pd)

5° CONCORSO ARTISTICO LETTERARIO “IL VOLO DI PEGASO”

5 Edizione ‘L’attesa’ – riepilogo opere Anipi pubblicateRaccontare le malattie rare: parole e immagini

Il tema del concorso: L’attesa

Di che cosa … di chi? Tante le letture possibili. Per un malato raro o un suo familiare, l’attesa è la speranza di guarigione, la lunga pausa prima di una diagnosi o anche la ricerca di nuovi affetti. Attesa, dunque, come pazienza, desiderio, sogno, timore, incertezza, sofferenza, tempo di rassegnazione o di lotta.

Anche quest’anno alcuni “amici” di A.N.I.P.I. hanno partecipato al concorso e tre lavori sono stati scelti e pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità.

– Un racconto “L’attesa, una dura battaglia”

di Giusy Marangotto

– Una fotografia “L’attesa è speranza… senza tanti punti di domanda”

di Ferdinando Mariani

– Una fotografia “Quante speranze… nell’attesa”

di Debora Marangotto

 

SEZIONE NARRATIVA:

“L’attesa, una dura battaglia”

L’attesa di che cosa….di chi? Per noi malati l’attesa è la speranza di guarigione, la lunga pausa prima di una diagnosi, ma soprattutto siamo sempre in attesa dalla ricerca perché da essa ci aspettiamo una cura, una soluzione alle nostre sofferenze. Ci aspettiamo che chi “ci studia” lo faccia con testa e soprattutto con il cuore e riponiamo in loro una totale fiducia, anche perché il più delle volte mettiamo nelle mani di sconosciuti la nostra vita con la speranza che alla fine ci ridiano la nostra “VITA”, ma…restiamo sempre in paziente attesa!

Quante emozioni possiamo provare mentre siamo in attesa? Molte, ansia, curiosità, malinconia, gioia, angoscia, noia, paura ci accompagnano dall’inizio alla fine del nostro attendere.

Tutta la nostra vita è un’attesa, da quando si nasce a quando si muore. E’ certo che di attese, nel nostro cammino, ce ne sono richieste sempre moltissime e soprattutto di qualsiasi tipo.

Attendere per me “oggi” significa speranza, fiducia e soprattutto pazienza, che, però, quando si devono affrontare delle malattie non sono sempre facili da avere.

Una volta non ero capace di aspettare “senza sapere”. Io dovevo “sapere” senza aspettare!

Già, ma sapere cosa? Fin da piccola la pazienza non c’era, per esempio, io dovevo sapere subito se Babbo Natale mi aveva portato il regalo che attendevo (andavo a guardare dentro i pacchi), dovevo sapere che voto avevo preso in un compito in classe (sbirciavo nel registro), se piacevo al ragazzo che mi faceva battere il cuore ogni volta che lo vedevo (tempestavo di telefonate gli amici), e via di seguito.

Ovviamente erano attese ben diverse da quelle che mi ritrovo a vivere adesso.

Oggi le definirei “infantili e stupide”, ma allora per me erano importanti.

Poi con il passar degli anni cambiarono anche i miei tipi di attese, e pian piano mi accorsi che mentre aspettavo una risposta certa ai miei dubbi e alle mie ansie, mi creavo tanti film tutti diversi. La mia mente era sempre in bilico tra due finali, in pratica mi trovavo sempre davanti ad un bivio, ma poi mi accorgevo che attorno a me sostanzialmente c’era il “vuoto”!

Eh sì, mi rendevo conto che passavo il mio tempo a crearmi dei castelli di carta che, irrimediabilmente sarebbero poi crollati e, di conseguenza…stavo perdendo attimi preziosi della mia vita ad aspettare un evento o una risposta che in ogni caso IO NON POTEVO modificarne il finale….però continuavo!

Poi, con il passare degli anni, nelle mie attese sono entrati i “Mostri”. Mostri che prendevano la forma del Cushing, della demielinizzazione cervico dorsale, e altre patologie e che, dopo ogni esame o visita nell’attesa delle risposte, s’ingigantivano, arrivando a mangiarmi sia fisicamente sia psicologicamente, ma soprattutto mangiavano…le ore della mia vita.

Ovviamente, non me ne resi conto subito, credo che per ogni persona malata sia in pratica impossibile vivere bene l’attesa degli sviluppi della malattia. Nel mio caso, dopo ogni esame attendevo gli esiti facendomi mille domande e dandomi mille risposte, i miei pensieri sfuggivano al mio controllo e pensavo già a quali decisioni prendere se doveva succedere quello che io mi aspettavo.

Il mio tempo era davanti al computer per cercare di “sapere” senza attendere le risposte da parte degli specialisti, ma cosa potevo trovare? Non di certo la risposta esatta e specifica per me, per quella dovevo aspettare!

Quando iniziai a capire che con il mio voler a tutti i costi “saltare” l’attesa facevo del male non solo a me stessa, ma soprattutto a chi mi stava vicino, perché il mio umore cambiava in base alle risposte anticipate che io mi davo. Se il finale costruito da me, era bello, allora ero felice, al contrario diventavo depressa e soprattutto intrattabile.

Fu allora, che iniziai a riflettere e mi dissi: io mentre attendo mi aspetto che accada “questo” e poi invece arriva “quello” che può essere in negativo o in positivo, ma è “quello” che spezza la mia attesa ed è reale, non immaginario e devo accettarlo in ogni caso perché non posso fare niente per cambiarlo.

Mi resi conto che attendere significava riconoscere che ciò che “speriamo” non dipende da noi, perché non siamo noi i “padroni” dell’attesa, ma è l’attesa che cerca di “manovrarci” e, il più delle volte in modo negativo.

Ora a 51anni non voglio più farmi condizionare e manovrare dalle svariate attese che mi aspettano ancora ogni giorno!

Sono stata in attesa di guarire dal Cushing e, quando credevo di avercela fatta…è ritornato ed è arrivato “più devastante” della prima volta! Quante attese…dagli esiti degli esami alle risposte dei medici, dal secondo intervento all’ipofisi, alla radioterapia e, oggi riparto nuovamente da zero, perché tutte le attese vissute sperando che alla fine mi portassero a una guarigione non sono bastate.

Dovrò viverne ancora tante altre fatte di altri esami, di nuove risposte e soprattutto di altre accettazioni, e, non solo per il Cushing, ma anche per la mia demielinizzazione.

Anche per questa malattia l’attesa è vissuta ogni giorno sui nuovi sintomi, sui nuovi dolori, sull’attesa che da un giorno all’altro possa, trasformasi in Sclerosi Multipla e, come se non bastasse, oggi dopo vari esami, mi è stato comunicato che devo sottopormi urgentemente all’asportazione delle ovaie perché sono a rischio di carcinoma!

Mi chiedono come faccio a sopportare tutto ciò, come posso attendere con tranquillità e serenità delle risposte che poi purtroppo si rivelano spesso negative.

Vi confesso, non è sempre facile, ma ho imparato a usare, anche se a modo mio, la fede. Quando sento che sto per cedere alla negatività mi rifugio in un piccolo angolino che mi sono creata dentro di me, dove cerco di “dialogare” con chi mi sa ascoltare senza togliermi la speranza e, questo mi aiuta a farmi rialzare con un carico di ottimismo e fiducia in più.

Cerco anche di usare l’attesa occupando la mia mente e il mio tempo in maniera positiva, leggo, cucino. Amo cucinare e inventarmi piatti particolari, anche se poi finiscono tutti nel congelatore in attesa del ritorno a casa di mio marito. Purtroppo lui lavora in un’altra città e ritorna solo nel fine settimana e, anche questa è un’attesa non facile da sopportare. Per lui ancora di più, perché so, quanto soffre non potendo essermi accanto sempre, ma io sdrammatizzo dicendogli che più mi sta lontano meglio è, così io non l’ho sempre “tra i piedi” e inoltre si evita i miei sbalzi d’umore e comunque abbiamo dalla nostra parte il forte amore che ci unisce che dissolve tutte le attese.

Per quel che posso, sistemo casa, qualche uscita con le amiche, tante telefonate con chi magari sta peggio di me, cercando di infondergli un po’ di entusiasmo e fiducia, provo a vivere le mie attese al meglio, cercando di evitare di pensare al peggio, e, se anche poi il peggioramento arriva, cerco di trovare anche in quello un piccolo segno di positività, insomma non so se riesco a spiegarmi, ma io penso che domani non potrà essere peggiore di oggi, anzi sarà meglio!

L’attesa ti logora, però la serenità è alla base di una guarigione…lo so…è più facile a dirsi che a farsi, ma è così!

Non bisogna arrendersi. Bisogna combattere, perché già lottare, ci dà un’energia diversa, utile anche a vivere e a sopportare meglio le malattie, qualsiasi esse siano.

Battersi ci dà speranza che è un grande stimolo e forza per alzarci ogni mattina e ripartire nell’attesa di una nuova LUCE!

L’ATTESA NON DEVE TOGLIERCI LA SPERANZA DI VIVERE!!!

SEZIONE FOTOGRAFIA:

“L’attesa è speranza… senza tanti punti di domanda”

“Quante speranze… nell’attesa”

Le fotografie sono visibili nell’allegato

4° CONCORSO ARTISTICO LETTERARIO “IL VOLO DI PEGASO”

Raccontare le malattie rare: parole e immagini

Anche quest’anno alcuni dei nostri “amici” hanno partecipato alla quarta edizione del concorso e tre lavori sono stati scelti e pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità.

“Cos’altro è la malattia, infatti, se non un lungo percorso sul quale si snoda il proprio vissuto e sul quale si sospende tutto? Forse un sottile filo da equilibrista su cui riscrivere la propria storia e inventarla da capo. E’ sempre un cammino la malattia, e anche quando sembra arrestare tutto, in realtà, ci catapulta su strade difficili, ripide, mai asfaltate e sempre ciottolose, ma costretti a camminare. Ed è il racconto in parole, musica o immagini che chiediamo di questo viaggio, la fotografia di queste strade, sulle quali è possibile incontrare anche la speranza”.4 Edizione ‘Il cammino’ – riepilogo opere Anipi pubblicate

Un racconto “La mia scalata”, una fotografia “Buio e cielo” ed una canzone “Una strada nuova”.

SEZIONE NARRATIVA:

“La mia scalata”

Il nostro cammino inizia già da dentro la pancia della nostra mamma, quando iniziamo con i nostri piedini a calciare per voler uscire da quel posto strano e oscuro, vogliamo uscire per conoscere il mondo, vedere, sentire, capire, vivere insomma. Inizia così la nostra vita! Eh sì, inizia proprio così, ma, non è per tutti una gioia la nascita. Forse per qualcuno era meglio rimanere in quel posto oscuro dove però ti sentivi al sicuro, dove eri protetto da tutto e da tutti, ed io sono stata tra quei “qualcuno” che certe volte ha pensato “forse era meglio non conoscere il mondo!”. Ho imparato a fare i miei primi passi molto presto, già a sei mesi camminavo da sola, non portavo più il pannolino perché sapevo già dire pipì, ero già un piccolo caso “raro”, ero l’orgoglio dei miei genitori che con amici e parenti si vantavano, in senso buono, di avere un fenomeno in casa e dicevano: “Chissà quanta strada farà e dove arriverà”. Eh sì, ne ho fatta di strada, avevo 17 anni e non riuscivo ancora a immaginare bene il mio futuro, ma sapevo quello che avrei voluto, un lavoro, una casa, una famiglia però, l’unica cosa alla quale non avevo pensato era… la salute! A 17 anni non pensi al dolore, alla sofferenza, ma solo alle gioie, ai divertimenti. Mi sbagliavo, perché di lì a poco sarei stata brutalmente sbalzata in un’altra realtà, mi sarei ritrovata lungo un cammino ben difficile da affrontare, un cammino pieno di “mostri” che non mi avrebbero dato tregua! Quella sarebbe stata la mia vita e dovevo per forza percorrerla, all’inizio con l’incoscienza della mia gioventù, poi con la consapevolezza di donna, ora con la forza e la determinazione della mia maturità! Ho raggiunto 50 anni e mi porto sulle spalle più di 30 kg di cartelle cliniche, medici, esami di ogni tipo, mesi passati in ospedali sperando sempre che fosse l’ultima volta. Invece, l’ultima volta solo Dio sa quando sarà! Non voglio qui dare una lezione di vita, ma vorrei con la mia esperienza, riuscire a dare un po’ di speranza e soprattutto fiducia a chi sta soffrendo soprattutto psicologicamente e moralmente e che crede di non poter più affrontare la strada che ha davanti. Le mie camminate verso il futuro si sarebbero rivelate fatte solo di salite. Con l’andar degli anni e degli eventi, mi sono immaginata come una “ciclista scalatrice”, quella che affronta le montagne, quella che deve contare solo nelle proprie gambe, ma sa che prima o poi, anche se con tanta fatica, supererà tutte le tappe e arriverà in cima, e dopo anche per lei ci sarà la discesa. Ecco, io andavo avanti a tappe e, tutte avevano un nome. La prima si chiamava “Sindrome di Stein-Leventhal” e mi portò a 17 anni a una resezione delle ovaie. La seconda è stata “l’ipertensione con attacchi di panico” e a 20 anni arriviamo alla terza tappa, dove per alcuni anni mi sono dovuta fermare perché i medici non capivano che cosa avevo, ma soprattutto io che per 2 anni entravo e uscivo dall’ospedale cercavo di capire quello che mi stava succedendo. Il mio corpo cambiava giorno dopo giorno, mi stavo trasformando, mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo più. No! Mi dicevo quella non posso essere io, il mio peso aumentava a vista d’occhio, perdevo tutti i capelli, i denti si spezzavano, i peli sul viso, la gobba dietro al collo e la stanchezza che mi uccideva e il pianto era ormai la mia unica consolazione. Mi sentivo sola, mi vedevo orribile, credevo che nessuno potesse capirmi e anche se ero circondata dall’affetto e dall’amore dei miei cari, mi chiusi in me stessa dove il mio unico pensiero era di essere l’unica persona sulla terra che soffriva. Meglio morire, pensavo e pregavo Dio che mi prendesse con sé perché così non volevo essere. Poi però all’improvviso nella mia disperazione iniziai a guardarmi intorno con occhi diversi e mi accorsi di “loro”: bambini, giovani, anziani, che stavano peggio di me, dove la sofferenza non gliela leggevi negli occhi ma solo nel fisico, “loro” sorridevano sempre, avevano parole di speranza e fiducia per tutti, “loro” che sapevano già di non avere più nessuna strada da percorrere continuavano a camminare verso la vita! M’insegnarono con i loro sorrisi a tirare fuori quella forza che si trova dentro ognuno di noi. Non era più importante il mio aspetto esteriore, ma quello interiore, come ero fatta io dentro nessun “mostro” poteva modificarlo. Così iniziai la mia “nuova vita” e, il tanto temuto ospedale divenne per me la mia “seconda casa”, dove avevo tanti amici da aiutare, da far sorridere e, soprattutto dovevo cercare di trasmettere in loro la fiducia per il futuro, a combattere e a non arrendersi mai! Imparai così a non pensare più solo a me stessa, ma a cercare di dare agli altri quello che era stato dato a me, la voglia di “vivere!” Finalmente la terza tappa si sbloccò, l’esito fu “Malattia di Cushing” e chi la conosce sa quanto sia devastante nel fisico e nello spirito. Allora pensai: “che bello ora la distruggiamo e tutto torna come prima!” Parliamo però di 20 anni fa quando questa era ancora una malattia rara e poco conosciuta e all’epoca di cure quasi non ce ne erano. A me all’epoca restò solo una strada, l’intervento, e questa fu la mia quarta tappa. Non fu tutto facile, passai dei momenti terribili con mille complicazioni, mille dolori, ma non mi sono mai abbattuta, e, infatti vinsi la mia battaglia! Ecco dopo questa tappa iniziò per me una corsa in discesa e mi sembrava di volare, ero tornata come prima, avevo sconfitto un “mostro!”. Non sapevo però, che dopo pochi anni un’altra tappa avrei dovuto affrontare, la quinta. All’improvviso una notte il mio corpo si paralizzò completamente, l’unica cosa che continuava a funzionare in quel momento era la mia mente. Non nego, che in quel momento pensai: “ecco è arrivata la mia fi ne!”, ma poi, in me scattò di nuovo la voglia di combattere e, pensai: “va beh, se anche non potrò più muovermi… almeno la mia testa ancora funziona, così potrò parlare e rompere le scatole a chi dovrà starmi vicino per curarmi”. La diagnosi fu “demielinizzazione con lesioni midollari a livello dorsale e cervicale”, in parole povere l’anticamera della sclerosi multipla! La paralisi fu temporanea e quando passò, mi dissi: “Sono fortunata, c’è chi sta peggio, almeno io per il momento ancora cammino!”. Pensavo che, dopo questa nuova malattia avrei terminato il mio cammino verso… altre tappe. Invece mi sbagliavo, avrei dovuto affrontare altre salite. Tre anni fa sesta tappa. La mia vista inizia farmi degli strani scherzi e dopo vari esami la diagnosi fu “corioretinopatia con distacco sieroso a entrambi gli occhi”. Subito dopo la settima tappa, (doccia fredda, freddissima) “recidiva di Cushing”, anche quella era ritornata! Due anni fa sono stata rioperata all’ipofisi. Dopo 5 mesi dall’intervento la mia ottava tappa. All’improvviso non avevo più l’equilibrio, tutto girava, non potevo più muovermi da sola, diagnosi “neuronite vestibolare sx” in poche parole il mio nervo dell’equilibrio sx, colpito da un virus, si era danneggiato e non avrebbe più funzionato! Arrivo alla nona tappa, dal mio secondo Cushing non sono guarita, anche se ho fatto la radioterapia e una cura farmacologica e sapete perché? Perché nel mio cammino mancava ancora la decima tappa! E, sorpresa (come nell’uovo di Pasqua) mi sono stati diagnosticati in ambedue i surreni due begli adenomi secernenti che continuano a produrre cortisolo a livelli elevatissimi, perciò unica soluzione, eliminarli! “Bene!, ho detto ridendo al medico quando ho ricevuto la notizia, ora sono arrivata in cima alla mia montagna!”. Non so se ad oggi sono arrivata in cima, voglio però pensare di sì e, tra un po’ inizierà anche per me la mia discesa. Ecco, a mamma e papà voglio dire, GRAZIE per avermi dato la vita! Questa è stata la mia strada, mi ha portato a 50 anni a essere ancora qui con voi e con tutte le persone che mi vogliono bene, ma non dovete pensare che questo mio cammino sia stato solo verso le malattie, le sofferenze e, perciò così terribile, perché per me non è stato così! Tutti questi “mostri” che ho dovuto, e dovrò ancora affrontare, mi hanno portato ad avere più forza dentro di me a cambiare il mio modo di vivere, ad amare tutto quello che mi circonda e ad accettare con un sorriso quello che ogni giorno la vita mi riserva, ma soprattutto ho imparato a capire e ad aiutare le persone che soffrono, perché, anche se noi stiamo male, dobbiamo sempre guardarci intorno “c’è sempre qualcuno che sta peggio di noi”. Perciò non lamentiamoci, anche se soffriamo, diamo un sorriso, una parola di ottimismo, una parola di speranza e fiducia a chi soffre, questo aiuta loro, ma aiuta soprattutto noi a camminare verso la vita!

SEZIONE FOTOGRAFIA:

“Buio e cielo”

La fotografia è visibile nell’allegato

SEZIONE MUSICA:

“Una strada nuova”

Paura, ansia, emozioni che rischiano di travolgerti. Assieme a limiti e ferite la malattia, strada facendo, ha risvegliato nell’autore talenti nascosti, energie insospettate e la voglia di aprirsi agli altri continuando a sognare.

3° CONCORSO ARTISTICO LETTERARIO “IL VOLO DI PEGASO”

IL VOLO DI PEGASO – 3° CONCORSO – 3 Edizione ‘Le voci del Silenzio’ – riepilogo opere Anipi pubblicateIL VOLO DI PEGASO – 3° CONCORSO – 3 Edizione ‘Le voci del Silenzio’ – riepilogo opere Anipi pubblicate3° CONCORSO ARTISTICO LETTERARIO “IL VOLO DI PEGASO

Raccontare le malattie rare: parole e immagini

Il tema del concorso ‘Le voci del silenzio’.

“E’ di silenzio, infatti, che a un certo punto vive il dolore. Soprattutto quando ha smesso di cercare, quando il labirinto dell’attesa diventa una casa in cui vivere e convivere. Senza diagnosi, senza terapia, senza che sia riconosciuta la propria malattia può restare solo il silenzio. Ed è per questo che nasce la sfida: farlo diventare parola, figura, immagine, ma soprattutto un gancio per restare ancorati alla vita di tutti.”

Quest’anno alcuni dei nostri “amici” hanno partecipato alla terza edizione del concorso e tre lavori sono stati scelti e pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità.

Complimenti per le belle emozioni che ci hanno trasmesso con i loro lavori.

Un racconto “La malata immaginaria”, una poesia “Voci di solitudine” ed una fotografia “L’onda di speranza”.

SEZIONE NARRATIVA:

“La malata immaginaria”

Dopo il solito lungo tragitto scendo a fatica dall’auto e ora mi arrampico affannosamente sulle scale. Come al solito mi sento appesantita e stanca e anche i gradini diventano dei nemici. Ripenso alla mia infanzia, io e mio fratello ci rincorrevamo su e giù per quei scalini, ridendo. Mi sembrava di avere le ali. Ora mi sento così vecchia e spenta. “Come è possibile”, mi chiedo, “a trentacinque anni?”. Me lo domando spesso ma non so darmi alcuna risposta. Nessuno finora mi ha detto il perché di tutto questo.

 Entro in casa con la mia chiave, lentamente. Sento la voce di zia Rosa che chiede a mia madre: “Come sta Stefania? So che dovrebbe venire a trovarti in questi giorni….”Lei risponde duramente: “Come vuoi che stia? Ogni volta mi sembra ancora più grassa e triste. E, non guardarmi così. Non sto esagerando. Ti ricordi com’era bella il giorno del suo matrimonio? Era un fiore. Poi i figli non sono arrivati e lei si è abbruttita. Non è riuscita nemmeno a tenersi il marito! Mica per il figlio che non arrivava (ssssser gli uomini si sa i bambini sono per lo più un fastidio), ma perché si era sformata e le era venuta persino la barba! Era sempre così ansiosa e depressa. Lo è anche adesso. E’ mia figlia e io le voglio bene. Sai quante volte le ho detto, calmati un po’, mangia di meno, vai dall’estetista e sorridi, non vedi come ti sei ridotta?”

Ascolto le sue parole e mi fanno male. Riesce sempre a ferirmi. Non sono ancora riuscita ad abituarmi al suo cinismo. Non era così quando c’era papà. Non è mai stata tanto sensibile e attenda, ma lui subentrava nei suoi lati manchevoli. Emergevano allora per lo più la sua gioia di vivere e il suo dinamismo. Era la sola mamma del quartiere che giocava a pallone con i propri figli! E noi ne eravamo fieri. Ma poi papà è morto e si è portato con sé tutto il bello di lei.

Ripenso a Marco e, come una pellicola che si riavvolge velocemente, rivedo la separazione e, prima ancora, la nostra vita insieme. Quando lo conobbi ne fui subito attratta. Era molto affascinante e ci sapeva davvero fare con le donne. Non ricordo nessuna della nostra compagnia che non fosse interessata a Marco. Ma lui scelse me. “Sei molto bella e vera e questo ti rende speciale, anzi unica”, così diceva lui. Io me ne innamorai perdutamente e lui, credo di sì, credo che mi abbia amato, almeno per un periodo. Sono stati anni felici, trascorsi a fare le cose che amavamo entrambi: le domeniche in moto, i viaggi, le serate in discoteca e, soprattutto, fare l’amore. Lì avevamo una grande intesa e quasi ogni litigio o problema veniva risolto a letto. Non ero affatto sicura che questo andasse bene, ma mi dicevo “infondo sono solo piccole incomprensioni!”. Dopo un lungo fidanzamento ci siamo sposati e almeno per i primi due anni le cose sono andate benino. Poi però ho cominciato a desiderare intensamente un figlio e dopo un po’ ho convinto pure lui. E’ stato l’inizio della fine. Una fine lenta e dolorosa.

Dopo un anno e mezzo di tentativi inutili, abbiamo fatto degli accertamenti e sembrava tutto apposto. Il ginecologo aveva detto: “Il più delle volte non c’è un motivo per il mancato concepimento. Voi del resto siete piuttosto giovani.” 

Mi ricordo che tornando a casa pensavo: “Se almeno ci fosse un problema fisico avremo fatto qualche cura e dopo io sarei rimasta incinta!”.

Nei mesi successivi non ne abbiamo piu’ parlato ma facevamo sempre meno l’amore. La nostra sintonia si era stata guastata già prima, durante il lungo periodo di rapporti programmati per il concepimento, rapporti che si erano fatti via via sempre più freddi e meccanici. 

In quel periodo ingrassai parecchio, i chili in più si vedevano nel viso e nella pancia. Già proprio sul ventre, come la vecchia cagna di mia nonna. Era stata sterilizzata prima di diventare almeno per una volta madre e quel desiderio di maternità la faceva, durante il periodo fertile, ingrassare sulla pancia, come se fosse incinta. E forse, era ciò che stava accadendo anche a me. Del resto mangiavo come al solito e non sapevo spiegarmi il perché di questo aumento di peso. Inutile dire che così non ero affatto attraente e lui mi diceva, senza mezzi termini, “devi dimagrire”. Pensavo: “Perché me lo dice? Mi sento già brutta a sufficienza. Io stessa non mi riconosco più!”. Mi sentivo sempre più frustrata e sola. Lui ad un certo punto ha smesso di sottolineare il fatto che ero fuori forma (con mio sollievo) ma, di lì a poco, ha anche smesso di chiedermi di fare l’amore con lui. Mi dicevo: “E’ un periodo. Tornerò ad essere snella e ritroverò la mia bellezza. Staremo di nuovo bene insieme e, se Dio vuole, avremo un figlio o ne adotteremo uno”. 

Ma le cose non miglioravano. Dormivo poco, perdevo i capelli e mi ferivo facilmente poiché la mia pelle si era fatta sottile. Senza parlare del mio umore altalenante. Un giorno mi sentivo euforica e il giorno dopo ero depressa. Anche in ufficio avevo problemi di concentrazione. “Sono gli ormoni”, mi dicevo. Avevo chiesto al mio medico cosa ne pensasse, volevo capire cosa mi stava accadendo, ma lui mi aveva risposto con un sorriso dicendo: “Mia cara lei è solo un po’ stressata. Vedrà che starà meglio presto.”  

Un giorno tornando a casa ho visto la sua auto. Era rientrato insolitamente presto. Quando mi ha visto mi ha detto: “Devo parlarti.” Quello che è accaduto subito dopo è un uragano che mi ha travolto lasciandomi un ricordo confuso. Le sue parole hanno avuto l’effetto di un pugno allo stomaco che mi ha fatto vomitare. Mi lasciava. Aveva un’amante e lei era incinta.

“Stefania, sei qui? Perché non mi hai chiamato?”. Stordita dai miei ricordi, invece di proseguire attraverso il corridoio verso la cucina, mi ero seduta sul divanetto d’entrata e ora mia madre si dirigeva verso di me.

“Scusa mamma, ho avuto un momento di stanchezza improvvisa e mi sono seduta.” Lei mi guarda con gli occhi mesti poi contrasta questo suo stato d’animo ribattendo: “Ancora triste? E’ già passato un anno. Devi reagire!”.

Di solito taccio, in cuor mio so che lei non capisce, ma stavolta rispondo con voce bassa “Ho detto stanchezza, non tristezza”. Lei borbotta e va verso la cucina: “Vieni ti preparo un caffè”. E’ vero, è quasi un anno. Un anno da cancellare, vissuto nel silenzio e nella ricerca di una me stessa che ormai ho perduto. Lui nel frattempo è diventato papà e lei, a pochi mesi dal parto, è già in gran forma. L’ho vista ieri per caso al supermercato… Si è presa la mia vita….

Io sono andata dalla psicologa per mesi, ma alla fine ho lasciato stare. Nemmeno lei si districava nel labirinto dei miei stati d’animo. Sono andata anche dal dietologo, dall’estetista, dal cardiologo, da un iridologo e da un omeopata senza quasi nulla risolvere. Nessuno diagnosi. Non so più cosa pensare. Sono una malata immaginaria? Non può essere, i miei disturbi sono reali! Sono forse io a crearli? Esco con qualche uomo, ma non ho più fatto sesso. Non riuscirei a spogliarmi. Sono solo amici, anzi meglio conoscenti, persone con cui si esce per parlare del più del meno, perché il mio mondo interiore appartiene solo a me. Nessuno può capire, che senso ha allora svelarsi?

In cucina trovo mia zia. Le chiedo “Ciao, come stai?”. “Mica tanto bene, ho un problema alla tiroide e ora mi tocca andare da un medico specialista che la cura. Sono spaventata. Inoltre sono sempre stata bene e non sono pratica in queste cose. Non è che puoi accompagnarmi? Tu te ne intendi di medici!”. Parla tutto d’un fiato come se mi avesse aspettato proprio per farmi questa domanda. Lei è sempre stata buona con me e, anche se ormai non ne posso più di visite, annuisco dicendo: “Non preoccuparti zia. Ti accompagno io. Fammi sapere quando hai l’appuntamento, così chiedo un permesso al lavoro.

Dieci giorni dopo siamo davanti al medico. Visita mia zia e le prescrive un farmaco da assumere tutti i giorni. Lei dice “Tutto qui? Meno male! Temevo di avere una cosa brutta!”. Io e il medico sorridiamo. Lui mi sta fissando. In realtà mi sento osservata sin da quando ho varcato la porta del suo studio. Alla fine mi dice: “E lei ha mai fatto una visita da un endocrinologo?”. Sto zitta e penso “che vuole questo? Ne ho già abbastanza dei medici!”. Incalza: “Potrei visitarla io. Basta che prenda un appuntamento con la segretaria qui fuori. La prego. Nel frattempo le ordino qualche esame ormonale.” 

Sono passati pochi giorni e sono di nuovo qui. Mi ha convinta quel suo “la prego”. Mi ha appena visitato e ora consulta l’esito degli esami effettuati. Mi chiede molte cose e lentamente rompe il muro che mi sono costruita intorno. Ora sono un fiume in piena. Gli racconto tutto. Lui ascolta in silenzio e alla fine mi dice: “Lei non è né esaurita né una malata immaginaria. Il suo è un caso evidente di ‘morbo di Cushing’. Si tranquillizzi, le cure esistono, si deve solo affidare a me. Credo che la mia guarigione sia iniziata in quel momento: finalmente qualcuno mi capiva!

 

SEZIONE POESIA:

 “Voci di solitudine”

 Soli,
così ci sente,
soli
a chiedersi perché a noi,
perché proprio a lui…
soli,
in un giorno qualsiasi della propria vita
il mondo va al rovescio
e diventa buio,
cerchi, chiedi, ovunque…
soli,
l’anima si perde
a volte la ritrovi lontana
mentre vaga tra i sorrisi degli amici
e le lacrime…
giorno dopo giorno, paura dopo paura
si impara l’ABC del dolore e del morire
e il peso insopportabile del sapere

SEZIONE FOTOGRAFIA: 

“L’onda di speranza”

S6-17